ADRIATICO – UN MARE DI BOMBE
Proiettili all’uranio impoverito, cluster bomb, missili Tomahawk, granate al fosforo, bombe a guida laser ed addirittura siluri. Parliamo di 20 mila ordigni con caricamento speciale a base di aggressivi chimici. Ed ogni tanto, sulla battigia, da Grado a Gallipoli affiorano ordigni di ogni genere.
Sino a una trentina di anni fa, riferisce l'Icram (Istituto per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare) , la pratica corrente di smaltimento di munizionamento militare obsoleto era l'affondamento in mare. Molti residuati del secondo conflitto mondiale hanno seguito questa sorte.
Da un articolo de “la Repubblica del 13 Febbraio 2000 leggiamo:
“Oltre 64mila ordigni sono stati recuperati dalla Marina militare in una vasta area dell' Adriatico dal 2 settembre ' 96 ad oggi. Ma ne resterebbero più del doppio in fondo al mare. Lo ha reso noto il presidente del Consiglio Massimo D' Alema parlando nell' Università di Ancona. Il premier ha chiarito che si tratta di ordigni risalenti anche alla prima e alla Seconda guerra mondiale.”
Si tratta di bombe chimiche a base di sostanze letali come l'iprite, l'arsenico e forse anche l'uranio impoverito, che stanno devastando il patrimonio ittico e l'ambiente marino.
C'è un dossier dell'Icram , che rappresenta il risultato di due anni ('98-99) di indagini in mare e di campionamento ed analisi delle acque e dei pesci. L'area prescelta è il tratto di mare esteso 10 miglia nautiche che si trova a 35 miglia al largo di Molfetta.
«I fondali indagati», recita il rapporto finale del coordinatore delle indagini Ezio Amato, «costituiscono una delle quattro aree di affondamento individuate. Ma quante altre aree di affondamento ci sono in Adriatico? Impossibile saperlo: le autorità militari non forniscono informazioni, tutto giace top secret. È certo, invece, che il caricamento dei 20 mila ordigni individuati dall'Icram è costituito da aggressivi a base di iprite e composti di arsenico. In totale, sono state individuate «24 diverse sostanze costituenti il caricamento speciale; di queste, 18 sono persistenti e in grado di esercitare effetti nocivi sull'ambiente».
In alcuni casi l'aggressivo chimico è conservato in bidoni anch'essi adagiati sui fondali, e che, a causa della corrosione, continuano a rilasciare sostanze letali.
Alcune tra esse sono vescicanti (iprite e lewisite); asfissianti (fosgene e difosgene); irritanti (adamsite); tossici della funzione cellulare (ossido di carbonio e acido cianidrico). A seconda dei casi, queste sostanze provocano la distruzione delle cellule umane, attaccando occhi, pelle e apparato respiratorio; alterano la trasmissione degli stimoli nervosi. Negli organismi che ne entrano in contatto, siano esse allo stato liquido o gassoso, le sostanze provocano bruciore, edema, congiuntiviti, congestioni in naso, gola, trachea e bronchi, danni polmonari cronici e asfissia.
Sono state scientificamente provate anche le alterazioni genetiche e le aberrazioni cromosomiche. Studi approfonditi sugli effetti sull'uomo sono stati realizzati dal professor Giorgio Assennato dell'Università di Bari, che ha condotto un'indagine su 232 pescatori pugliesi vittime di incidenti tra il 1946 e il '94. Che si verificano quasi sempre durante la pesca a strascico, tecnica che spazza i fondali imbrigliando gli ordigni nelle reti. Le conseguenze peggiori avvengono per l'esposizione agli agenti tossici, attraverso l'inalazione dei vapori e il contatto cutaneo. Quando non c'è un danno immediato agli occhi, è il sistema respiratorio ad accusare i sintomi più evidenti dell'intossicazione: «Dolore toracico, tosse, ipofonia e faringodinia», scrive nel suo studio Assennato.
Seguono tachipnea e broncospasmo a distanza di circa 12 ore. Esposizioni gravi producono la morte per insufficienza respiratoria, polmonite e soprattutto, tumori. Questo per l'uomo.
Riguardo ai danni provocati nell'ambiente marino, lo studio dell'Icram è chiaro. I campioni prelevati dai ricercatori, acqua, sedimenti e pesci, «sono stati sottoposti a quattro diverse metodologie d'analisi che indicano la sussistenza di danni e rischi per gli ecosistemi marini determinati da inquinanti persistenti rilasciati dai residuati corrosi». In particolare, grazie ai confronti con esemplari della stessa specie prelevati nel Tirreno meridionale, le analisi hanno rivelato nei pesci dell'Adriatico «tracce significative di arsenico e derivati dell'iprite». Particolarmente rilevanti «le alterazioni a carico di milza e fegato». Le alterazioni epatiche più frequenti sono state la presenza di steatosi e alterazione focale della colorazione. Per quanto riguarda la milza è stato osservato un «aumento di volume, consistenza diminuita e presenza di noduli».
Altre alterazioni a carattere più sporadico sono state riscontrate a carico delle branchie con presenza di erosioni e emorragie. È stata anche riscontrata la presenza di parassiti in branchie, cavità addominale e tessuto cutaneo». Cosa significa tutto questo in linguaggio meno tecnico? «Che i pesci dell'Adriatico», spiega Ezio Amato, «sono particolarmente soggetti all'insorgenza di tumori; subiscono danni all'apparato riproduttivo; sono esposti a vere e proprie mutazioni genetiche che portano a generare esemplari mostruosi». E non basta. Non essendoci limitazioni alle attività di pesca, questi pesci continuano a finire sulle tavole dei consumatori. Con quali conseguenze per la loro salute? Studi specifici non sono mai stati fatti. «I risultati ottenuti dalla nostra indagine su un piccolo campione», avverte Amato, «sono allarmanti».
La Marina militare italiana aveva annunciato la bonifica, promessa da vari governi che si sono succeduti, mentre in Parlamento centinaia di interrogazioni attendono risposte esaurienti.
Ed ogni tanto, chi lavora in mare, ci rimette la vita.
L’ultimo di una lunga serie di incidenti legati all’esplosione di ordigni bellici in Adriatico è accaduto il 26 Ottobre 2006.
Il peschereccio Rita Evelin, nuovo di zecca, affonda con mare calmo dinanzi alla costa marchigiana e tre pescatori vengono inghiottiti dal mare Adriatico. Il fascicolo di questo incidente è finito in una sottile cartellina, già impolverata come una noiosa pratica amministrativa.
I documenti riservati sono conservati, lontano da sguardi indiscreti ,negli archivi della Capitaneria portuale di San Benedetto del Tronto.
Sarà soltanto un caso, ma l’area del cosiddetto “incidente” coincide con una delle ventiquattro ampie zone in cui vengono affondate gli ordigni. Secondo il riscontro diretto da parte dei pescatori e dei relativi incidenti, non rari, sarebbero ventiquattro le aree e non sei come dichiarato dalla Nato.
Qui sono stati abbandonati un numero non ben stimato di ordigni da velivoli dell’Alleanza atlantica nel mare Adriatico di ritorno dai bombardamenti in Kosovo nel 1999.
Prima ancora in Bosnia Herzegovina nel 1994-’95.
Ma è soprattutto nel basso Adriatico che si registra la maggiore concentrazione di ordigni bellici. Soltanto a Molfetta, in un raggio di 500 metri dalla riva di Torre Gavettone (100 metri dalle abitazioni), «i sub della Marina militare ne hanno catalogati 110.000.
Mentre nel porto e nelle sue immediate adiacenze ce ne sono un numero imprecisato», rivelano un ufficiale e un sottufficiale. Il 22 settembre 2004, in un’interrogazione parlamentare del senatore Ds Franco Danieli al presidente del Consiglio dei ministri, si menziona la presenza in Adriatico oltre che di «residuati chimici della seconda guerra mondiale di produzione Usa», proibiti dalla Convenzione di Ginevra del 1925, soprattutto di « bombe a grappolo del tipo Blu-27 e proiettili all’uranio impoverito ». I premier di uno e dell’altro schieramento che si sono susseguiti nel tempo, non hanno mai risposto. Il senatore Danieli con tanto di prove fa riferimento anche al fatto che « ancora oggi, in alcune zone, oltre le 12 miglia marine (ad esempio al largo di Fasano in Puglia e Cupra al largo di Cupramarittima nelle Marche) vengono rilasciate in mare bombe o serbatoi ausiliari da aerei militari italiani in emergenza ». Il 25 maggio 1999, la poco nota deliberazione 239 del Consiglio regionale delle Marche prendeva atto che « in questo ultimo periodo è continuato lo sganciamento di bombe da parte di aerei Nato nell’Adriatico, anche a ridosso della costa marchigiana ».
Altro affondamento tra le Marche e l’Abruzzo di un altro peschereccio, il Vito Padre, avvenuto il 30 Maggio (due le vittime) mentre il 17 dicembre 2006, i flutti hanno sommerso il Maria Cristina provocando la morte di un lavoratore del mare. Come se non bastasse l’Adriatico è stato anche teatro di giochi di guerra della Nato. A farne le spese cinque pescatori italiani, i primi 4 risultano ancora abbandonati in fondo al mare, il quinto venne a galla subito dopo l’incidente.
La notte del 4 novembre 1994 ad affondare il peschereccio "Francesco Padre" di Molfetta nelle acque internazionali di fronte alla Puglia, è stato un ordigno bellico targato Nato.
Lo provano un’esercitazione dell’Alleanza Atlantica dagli esiti secretati, una perizia chimica, quattro relazioni tecniche. L’ispezione, filmata con un "Rov" (Remotely Operated Vehicle, minisommergibili filoguidati che possono scendere ad alte profondit) a 243 metri di profondità, mostra oltre ai cadaveri, un relitto integro, se non per uno squarcio a poppa via sinistra, provocato da un vettore esplosivo esterno.
Sulla vicenda tuttora pesa il più ferreo segreto di Stato, imposto dall’Autorità nazionale per la sicurezza. Il bollettino di guerra prosegue con 30 bombe non a grappolo ripescate a fine Febbraio nel golfo di Venezia. Ma nel medio e basso Adriatico i piloti Nato hanno avuto pochi scrupoli. Tra Pesaro e Ancona, nei paraggi delle piattaforme metanifere, dalle quali il gas raggiunge la raffineria Api di Falconara, si sono liberati di «tre ordigni a grappolo e di una decina di bombe a guida laser, lunghe quasi tre metri e mezzo e pesanti una tonnellata», precisano i dati delle Capitanerie di porto marchigiane. Mentre nella “Montagna del Sole”, a Rodi Garganico, San Menaio e Calenella, sono approdate tre bombe al fosforo di fabbricazione americana.
In situazioni d’emergenza i bombardieri alleati avrebbero dovuto gettarle per sicurezza ad almeno 70 miglia dalla costa, nelle cosiddette jettison areas. Invece un ordigno con la scritta “U.S. 97” è affiorato recentemente nella laguna di Marano, ad appena 6 miglia dalle foci del Tagliamento, fra Grado e Lignano Sabbiadoro.
Ad attestare la presenza di ordigni, all’uranio impoverito e non, sono le mappe e le coordinate della Nato, nonché i dati secretati dalla nostra Marina militare.
Se circa un terzo dei siti di scarico sono concentrati in Puglia, a Nord sono il Golfo di Trieste e la laguna di Venezia i principali bersagli di affondamento per i velivoli Nato a capacità di bombardamento nucleare, compresi i Tornado dell’Aeronautica italiana, stanziati ad Aviano e Ghedi. Ed ancora da un articolo pubblicato sul “ corriere.it ” il 17 Maggio 1999 leggiamo: "Purtroppo la Nato non ha rispettato la sovranità - ribadisce il sindaco di Ancona Galeazzi - infischiandosene che in questo tratto di mare viaggino un milione di persone e 150 mila Tir, che Ancona possegga la più grande flottiglia da pesca dell' Adriatico con 800 pescatori e 200 natanti.
D' altra parte questo della Nato sembra un vizietto: il 12 aprile due ufficiali medici Usa hanno effettuato un sopralluogo all' ospedale regionale delle Torrette, per verificare le potenzialità di assistenza in vista di un eventuale attacco terrestre; e il 19 aprile sempre ufficiali americani hanno ispezionato il porto in vista del suo utilizzo per il trasbordo di mezzi da guerra sull' altra sponda.
In tutti i due casi hanno tenuto all' oscuro sia me, sia, perfino, il sottosegretario alla difesa, anconetano, Paolo Guerini". La Convenzione di Barcellona, dal 1995, non consente la discarica definitiva a mare, nel Mediterraneo, di materiali che possono costituire pericolo per l’ambiente marino, per l’attività di pesca e per la navigazione e quindi l’abbandono definitivo di bombe o materiale esplosivo.
Rilasci di tali materiali, accidentali o motivati da condizioni di emergenza o da incidenti, devono comportare azioni di recupero, messa in sicurezza e bonifica delle aree interessate con verifica dei danni e conseguente azione di risanamento. “Dietro la reticenza c’è la logica di guerra, che tende sempre a nascondere gli effetti, le conseguenze che popolazioni e territori sono costretti a pagare”, così Elettra Deiana, vicepresidente della Commissione difesa alla Camera e componente della delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare dell’Alleanza Atlantica.
E’ notizia recente l’acquisto di 131 cacciabombardieri F35 che impegnerà il nostro paese fino al 2026 con una spesa di quasi 14 miliardi di euro. Chissà com’è che non si mette mai in bilancio un corrispettivo adeguato per riparare i danni provocati. Dunque il vizietto di gettare a mare scorie nocive ed onerose da smaltire con troppa leggerezza và avanti da diversi decenni ormai perpetrando l’omertà ed il silenzio di chi sa ma non dice.
Forti poi del fatto che i problemi si presenteranno alle prossime generazioni, viene instillata una logica consumistica e fredda di vilipendio della natura come discarica e magazzino a basso costo. Ma se è vero, come è stato ormai accertato, che l’uomo si inserisce in un modello olistico universale, dovremmo essere molto cauti nel compiere scelte simili. Con quale arroganza presenteremo una natura depauperata e scarna a chi verrà dopo di noi.
E fino a che punto atti criminali del genere rimarranno senza colpevoli?
La natura, dal canto suo, si è dimostrata comprensiva e fin troppo generosa verso colui che si è limitato ad usufruirne a proprio piacimento. E’ tempo che l’uomo espanda la propria coscienza e comprenda ciò che lo circonda se vuole continuare ad esserne custode e parte integrante.
Alessandro Neri
Comitato Tecnico Scientifico
I Gre delle Marche